Raccontare ciò che proviamo è complicato.
Per farlo, bisogna vincere quel pudore del “mettersi a nudo”, del condividere una parte intima di noi.
Perché spesso, le nostre emozioni sono fonte di disagio per noi stessi e per gli altri.
È così perché non siamo abituati a maneggiarle.
“Come posso esprimere quello che sento?”
Ci sono emozioni che non si possono spiegare.
Non abbiamo i termini per definire il nostro stato d’animo perché è tutto troppo. E le parole non bastano per farsi capire.
Non rendono mai l’idea, non sono una trasposizione fedele di ciò che sentiamo.
Chi sta dall’altra parte, poi, spesso si ritrova a pensare “come dovrei reagire davanti a questa confidenza? Cosa devo dire?”
Quando qualcuno condivide le emozioni che sta vivendo, è difficile sapere qual è la cosa giusta da fare. Soprattutto se sta soffrendo.
Così ci si ritrova impacciati e in imbarazzo, e si rischia di sbagliare.
Allora si evita di parlarne, è più semplice.
Rimaniamo in superficie e schiviamo le conversazioni “vere”.
Ma perché, invece, sono così importanti?
Perché le parole sono contenitori.
Infatti, nel momento in cui si dice ciò che si prova, lo si riduce e lo si rende più gestibile.
Questo è il bello di dare un’etichetta alle cose: so cosa provo, come si chiama questa emozione, e dandole un nome la definisco e la contengo.
Non è più nebulosa e incerta, ma è proprio lei.
Ecco perché le parole sono contenitori.
Perché contengono il nostro sentire.
Raccontare ciò che viviamo ne delinea i contorni. È quello e non altro.
Ne definiamo i confini ed escludiamo tutto ciò che non c’entra, intravedendo più precisamente la sua grandezza.
Se invece rimane una cosa indefinita, può essere enorme e smisurata, quasi incontrollabile.
E noi ci sentiamo piccoli davanti alla nostra emotività e al nostro inconscio.
Un burattino che viene trascinato da queste forze immense e oscure.
Però, le parole non contengono e basta, ma generano mondi.
Il modo in cui raccontiamo le cose, dà loro una forma prima nella testa e poi nella realtà.
Pensiamo, per esempio, al concetto di profezia che si autoavvera: quando siamo convinti di qualcosa, è più probabile che accada, che diventi reale col tempo.
Vale anche per l’idea che abbiamo di noi stessi.
Se siamo convinti di essere degli incapaci, allora perché impegnarsi?
Ma senza impegno, non otterremo ciò che desideriamo.
E questo confermerà proprio il giudizio iniziale: non siamo in grado di fare niente, di gestire la situazione, di raggiungere ciò che vogliamo.
Creiamo le nostre convinzioni, su noi stessi e sul mondo, con le parole che ci ripetiamo in testa.
Tutto inizia da qui, dalla nostra mente.
Per questo è importante avere un vocabolario che ci permetta di esprimerci al meglio e di tracciare i nostri confini e quelli del nostro mondo.
Allora, per stare meglio basta parlare ed esprimere ciò che proviamo?
É questo il trucco?
No.
È un buon punto di partenza, ma poi c’è l’emotività da prendere in mano.
Anche se sappiamo esattamente ciò che sentiamo, non basta a stare meglio.
Infatti, la consapevolezza non risolve il problema, altrimenti molti di noi lo avrebbero già fatto.
La quotidianità non cambia se non ci prendiamo cura delle nostre emozioni.
E dare un nome a ciò che stiamo affrontando non coincide con la sua risoluzione.
Si inizia con la parola, si arriva alla consapevolezza e si conclude maneggiando l’emotività.
E in questo ci può aiutare l’inconscio.
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